LA VOCE DELLA LUNA

LA VOCE DELLA LUNA

LA VOCE DELLA LUNA

LA VOCE DELLA LUNA

Italia, Francia 1990
Regia: Federico Fellini
Soggetto: Federico Fellini (libera ispirazione dal romanzo Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni)
Sceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ermanno Cavazzoni
Fotografia: Tonino Delli Colli
Musica: Nicola Piovani
Interpreti principali: Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Nadia Ottaviani, Marisa Tomasi, Syusy Blady, Patrizio Roversi
Durata: 118 minuti

Ultima tessera del composito mosaico felliniano, La voce della luna è il film di un regista in là con gli anni, ma tutt’altro che senile. Anzi, nell’ultimo periodo della sua vita, Fellini trova non solo ulteriori energie per ridefinire il collaudato rapporto fra realtà e magia filmica, fra nudi fatti e fantasmagorie dell’immaginazione, bensì anche per tirare le somme della propria arte e del proprio tempo, un tempo che sembra ormai assottigliarsi e divenire sempre più estraneo e sfuggente.

Ginger e Fred, terz’ultima opera filmica felliniana, mette in scena la consueta e beneamata babilonia di guitti e artisti di seconda mano, umani troppo umani, provenienti da tempi, culture e concezioni dello spettacolo diversi e talora antitetici, non poi così diversi da quelli raffigurati ad esempio nell’episodio del Teatrino della Barafonda in Roma. Ciò che cambia rispetto a Roma è il medium che li contiene, la televisione, una scatola vuota e svuotante che annulla le differenze e annichilisce le identità. Ecco allora che ciò che era genuinamente popolare e gioiosamente ricorrente nell’opera del regista riminese – il varietà, il circo, il cinema, il grande spettacolo della vita – diviene consumo di massa, imbecille frullatore di coscienze in cui tutto è uguale a tutto. E se tutto è uguale a tutto, nulla vale. L’invettiva felliniana contro la televisione commerciale trova, in Ginger e Fred, tonalità epiche, ai limiti dell’apocalittico, e se ne riscontrano tracce più sfumate anche nel successivo Intervista, malinconico omaggio che Fellini porge a sé stesso e alle vestigia di un cinema che sta irrimediabilmente scomparendo.

A sua volta, La voce della luna è una sorta di compendio non tanto dell’opera felliniana, quanto del ruolo artistico e creativo del regista e, parimenti, delle coordinate psicologiche e comportamentali che muovono i suoi personaggi. Fellini rivendica l’urgenza di una rinascita dei nottambuli (il cui profeta è l’Ivo Salvini della marionetta gentile Roberto Benigni, curioso ibrido tra Pinocchio e Leopardi), in contrapposizione agli uomini diurni, delle creature lunari in conflitto con quelle solari, in breve, dei sognatori in lotta con un mondo che li considera esseri di risulta, comparse della vita sociale. Ecco allora che la luna parlerà soltanto a coloro che, per dirla con Bergson, “hanno smesso di essere utili, per cominciare semplicemente ad essere”, mentre un’umanità alla deriva celebrerà i rituali meccanici di una società dello spettacolo fin troppo simile a una sagra paesana, sotto lo sguardo severo di un uomo di legge, il prefetto Gonnella (un Paolo Villaggio pensoso e filosofeggiante, che ripropone alcune sue celebri tonalità recitative, attenuate dal calibro felliniano), moralista, paranoico e sognatore come possono esserlo solo gli inguaribili romantici, una volta catapultati in un mondo nel quale faticano a riconoscersi. A poco servirà la cattura della luna da parte degli abitanti del giorno – poi eternata in una delirante diretta televisiva – giacché essa continuerà a parlare agli uomini di buona volontà, ai poeti del sogno, ai lunatici, esortandoli a evitare di capire per aprirsi esclusivamente all’ascolto e al silenzio.

Con questo titolo di congedo, Fellini sembra rendere un simbolico e significativo omaggio ai suoi innumerevoli Pierrot, da Gelsomina al Matto, da Picasso allo zio Teo, da Cabiria a Toby Dammit, concludendo con l’Ivo Salvini di Benigni, da cui a un tratto sentiamo dire, mentre un sottile brivido corre lungo la schiena: “Quanto mi piace ricordare, più che vivere! Del resto, che differenza fa?”.

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